Credere a un metodo organizzativo

orso_stancoQualunque essere umano sano, normodotato e adeguatamente allenato può correre una maratona. Poi, certo, dipende anche da che costanza ci metti nell’allenarti e da che ‘cilindrata’ madre natura ti ha donato. Disponendo di una cilindrata non brillante ed essendo partito da una situazione in cui ero completamente fuori forma, personalmente dalla pratica della maratona ho imparato che se si crede in un metodo e si ha fiducia in chi ce lo insegna, si posso raggiungere risultati che prima sembravano impossibili.

Però bisogna crederci e occorre farlo sopratutto nei momenti in cui sembra di non farcela. Questo mese, tra il caldo che mi accompagnava negli allenamenti e un periodo lavorativo intenso che non aiutava a trovare grandi spazi per allenarmi, mi sentivo in certi momenti po’ come l’orso della foto qui sopra. E il pensiero andava a tutte quelle situazioni organizzative dei progetti aziendali in cui sembra che il caos debba ineluttabilmente prendere il sopravvento.

Ricollegandomi al post precedente, è proprio in queste situazioni che si vede se gli schemi organizzativi funzionano ma uno degli ingredienti perché gli schemi funzionino è la fiducia nel metodo e nel fatto che se anche oggi magari le cose non hanno girato per il verso giusto, domani sarà possibile raddrizzarle e mettere ordine all’organizzazione. “Noi abbiamo un sogno e non un ossessione” ripete come un mantra il solito controverso allenatore. E’ proprio così, occorre coltivare un sogno e non lasciare che serpeggino le ossessioni, questa è la vera essenza motivazionale e facilitativa per saper guidare un team che gestisce progetti.

Buone ferie a tutti!

I progetti e l’intensità di lavoro

In questo periodo mi trovo in una situazione lavorativa particolarmente intensa e la corsa diventa uno dei pochi momenti in cui riesco a mettere un po’ di ordine, soprattutto mentale, alle mille cose che devo inseguire. Naturalmente le mie riflessioni di questo periodo vanno al tema dell’intensità di lavoro nei progetti e di come sia necessario dare una direzione a questa intensità, perché non diventi tutto un inseguire vanamente le emergenze in modo disordinato.

1480963_mIn queste situazioni ci si rende conto una volta di più di come sia importante, per dirla con una illuminante metafora calcistica, evitare di correre come i forsennati dietro alla palla, ma cercare di mantenere la posizione e fare correre la palla al posto nostro. Se vogliamo è un concetto ovvio e banale, anche se in realtà è una di quelle cose che  sono più difficili di quanto possa sembrare da mettere in pratica.

La verità è che il lavoro in intensità è una di quelle cose che occorre allenare, bisogna imparare a tenere la propria posizione sul campo anche sotto pressione, esercitando e mandando a memoria gli schemi di gioco. Fuor di metafora, è importante esercitare le procedure organizzative e mandare a memoria gli schemi di interazione tra gli attori di progetto quando la pressione è bassa, in modo tale da trovarsi con dei meccanismi organizzativi collaudati nel momento della maggior pressione. Solo così facendo ci si può aspettare che ciascuno tenga la posizione e sia in grado di dare il proprio contributo migliore a supporto del team e del progetto affinché il team sia coeso nel momento più difficile. E solo così è possibile, per mutuare un altro concetto sportivo, anche praticare il ‘recupero attivo’ altro elemento fondamentale per riprendere fiato quando si è sotto pressione, favorire il riequilibrio energetico e garantire la tenuta del team alla distanza.

I progetti e la gestione dei rischi

Ritorno sul tema dei rischi perché a mio modo di vedere non si finisce mai di parlarne abbastanza.  L’occasione per parlarne è stato il webinar per Aula PMI che ho tenuto lo scorso 19 maggio sull’argomento e del quale può essere vista la registrazione sul portale Microsoft cliccando qui.

objectsinmirrorQuesto webinar segna uno stacco rispetto al passato, per la prima volta ho utilizzato la maratona come caso esemplificativo a cui applicare i vari argomenti trattati, per cui la metafora del podista è stata il filo conduttore di tutta la trattazione. Ovviamente i riferimenti nei miei pensieri andavano tutti alla maratona corsa il mese scorso, sicuramente ricca di spunti sul tema (per usare un eufemismo!), come già ampiamente spiegato nel mio precedente post.

Insieme ai partecipanti ci siamo chiesti qual è l’origine dei rischi, come analizzare le varie cause e come tenerne traccia. Poi siamo passati ad analizzare gli impatti, le relazioni causa effetto e le possibili azioni di risposta. Infine abbiamo toccato il tema del controllo dei rischi.

Parlare una volta ancora di rischi e delle loro misure, la probabilità e la prossimità, mi ha fatto venire in mente un’immagine rappresentativa che ho riportato nella foto qui sopra, ovvero quella tipica frase che c’è scritta nei retrovisori delle automobili americane: “gli oggetti nel retrovisore sono più vicini di quanto possano apparire”. La mia esperienza, e me ne convinco ogni giorno di più, è che le stime di probabilità e prossimità sono sempre troppo ottimistiche, anche i rischi sono sempre più vicini di quanto possano apparire. Questa frase andrebbe scritta nel ‘retrovisore’ di tutti i project manager.

Risolvere le issue di progetto e salvare progetti compromessi

Domenica scorsa ho avuto modo di sperimentare molto in pratica come una issue totalmente imprevista (il caldo intorno ai 30°C ad aprile) possa mettere compromettere completamente il rollout di un progetto (la mia maratona di Milano, che avevo preparato con tanta cura). Non che il caldo sia arrivato proprio all’improvviso, ma quando si è saputo che sarebbe arrivato era ormai troppo tardi per adottare misure preventive e non restava che provare a gestire la situazione.

7143699_sE così domenica mattina mi sono avviato verso la partenza cercando di capire quale potesse essere una strategia sensata per mettere in pratica tutte le raccomandazioni di prudenza del mio allenatore. Avendo come sempre suddiviso la prova in fasi (due fasi iniziali di 10 km ciascuna, seguite da 4 fasi di 5 km ciascuna e un ultima fase di 2.195 km) ho pensato che nella prima delle fasi  avrei tenuto più o meno il ritmo previsto, cercando di approfittare del clima relativamente più fresco e ventilato. Così ho fatto anche se al decimo chilometro, mentre facevo il mio primo consuntivo e valutavo i margini di tolleranza sul ritmo tenuto e il budget di rischio ancora a disposizione, mi sono reso conto che stavo consumando più effort del previsto e per le fasi successive ho deciso di abbassare il ritmo di 5 secondi al chilometro. Mi sembrava una buona stima per una buona valutazione del rischio e invece il calcolo era di nuovo errato: al km 29, sotto il sole a picco, è sopraggiunta inesorabile la issue di progetto, sono andato in crisi e mi sono ritrovato in eccezione con tutti i piani saltati.

Quindi al km 30 sono stato costretto a un SAL d’urgenza per capire se il business case del progetto stava ancora in piedi e per cercare di predisporre un exception plan. In quella situazione 12 km ancora da percorrere sembravano veramente tanti, il tempo finale non sarebbe stato buono e il punto era: vale la pena l’effort per l’unico beneficio residuo, ovvero quello di essere comunque arrivato in fondo? Ho pensato che sì, la soddisfazione di farcela comunque valeva lo sforzo e ho predisposto l’exception plan: ritmo blando, bagnarsi spesso, fermarsi a tutti i ristori, mangiare e soprattutto bere molto. Le tre fasi rimanenti (le due di 5 km e l’ultima di 2,195 km) a quel punto le ho collassate in un unica fase e ho ‘navigato a vista’, tenendo sotto stretto controllo le sensazioni.

Così facendo ho completato la mia maratona nonostante tutto, e in un tempo nemmeno così malvagio viste le circostanze. Certo, ho mancato l’obiettivo (e beneficio) principale che era quello battere il mio personale e questo mi costringerà a mettere in cantiere un altro progetto…..

Il project management, il sogno di Itaca e la gestione dei rischi

Ogni tanto mi chiedo perché la maratona abbia sempre esercitato e continui ad esercitare su di me tanto fascino. Me lo sono chiesto anche quando ho letto uno dei post più recenti dell’amico Walter Allievi sul suo blog, dal titolo Il sogno di Itaca: perseguite gli obiettivi, ma godetevi il processo, che mi ha suggerito una  possibile spiegazione. La maratona mi affascina perché è un po’ un viaggio verso l’ignoto, ha qualcosa in comune con l’Odissea, che infatti è stata sempre una delle mie letture preferite.

“Qualunque sia il vostro lavoro o il vostro percorso di vita, abbiate un sogno. Perseguitelo e nel farlo godetevi il viaggio.”

E’ proprio così, la maratona è affascinante perché è un sogno, ed è bello godersi il viaggio, come ha fatto Ulisse. E il project management? Anche il project management è un po’ un viaggio verso l’ignoto, con la sua buona dose di fascino e un sogno, il progetto, da realizzare.

Non a caso nella gestione di tutti i progetti e soprattutto in quelli di rivolti al cambiamento in azienda gioca un ruolo fondamentale l’elemento dell’imprevedibilità, da cui l’importanza della valutazione e gestione dei rischi, presenti sempre in quantità superiori rispetto a quanto accade nella normale operatività aziendale.

Mi sorprende sempre quanto questo elemento venga sottovalutato. L’andare verso l’ignoto è sicuramente una parte molto affascinante dei progetti, ma è molto importante tentare di mitigare gli effetti dell’imprevedibilità per evitare che il sogno si trasformi in un incubo. Gli atteggiamenti che vanno per la maggiore sono invece la spericolatezza (per non dire l’incoscienza) di prendersi i rischi senza fare calcoli oppure il rifiuto del rischio e quindi la rinuncia sistematica all’azione e al sogno. A bene vedere poi sono spesso le stesse persone che oscillano da un atteggiamento all’altro, seguendo la ‘filosofia dello struzzo’: occhio non vede cuore non duole.

Salvo poi sorprendersi davanti al verificarsi degli inconvenienti e andare alla ricerca degli alibi più surreali per giustificare il proprio operato.  Quante volte mi sono sentito proporre iniziative di business da persone che davanti ad elementari obiezioni in merito alla valutazione dei rischi mi hanno opposto un disarmante “ma mica facciamo le cose perché vadano male, vedrai che andranno bene”. Già, e se poi invece male ci vanno per davvero, abbiamo valutato come fare fronte alla situazione? Cercando di vedere il lato umoristico della cosa, sono arrivato alla conclusione che queste sono le stesse persone che se non fossero obbligate non assicurerebbero la propria automobile. Per mia fortuna ho lavorato con gli operatori del mondo del private equity e una cosa che mi hanno insegnato è che a ogni way-in deve corrispondere sempre una way-out solida e sostenibile.

La maratona e tutti gli sport di resistenza ci insegnano la pratica quotidiana della gestione del rischio e ci offrono un meraviglioso banco di prova per allenare la nostra sensibilità al rischio e ai tanti elementi che lo possono determinare: svolgendo una attività al limite non si può sbagliare, se si ‘tira’ troppo non si arriva in fondo. Anche Ulisse lo sapeva e nell’episodio delle sirene, riportato in figura, non ha lasciato nulla al caso, ha gestito bene i rischi, si è potuto godere davvero il viaggio e ha infine raggiunto il suo sogno.

La gestione del rischio è importante perché, come la tragedia giapponese di questi giorni ci sta insegnando, gli elementi che possono fare andare fuori controllo un progetto possono essere molti.

Un progetto è sempre una sfida ambiziosa

Questo post vi parla di un progetto ambizioso. Tutti i progetti sono sfide ambiziose, questo lo è di più. Mi fa tornare in mente quello che una collega qualche giorno fa spiegava ai suoi project manager: che si è veri manager se si è in grado di portare a termine progetti ambiziosi disponendo di risorse limitate.

In questo caso il progetto ambizioso è quello dell’amico Max, che vuole far tornare a camminare, io spero anche a correre, i ragazzi di Battambang, in Cambogia, che hanno perso le gambe. Ho aderito con entusiasmo al progetto di Max perché una delle ‘molle’ (sic!) che mi ha aiutato a superare le prime difficoltà quando mi sono rimesso a correre è stato l’esempio di Oscar Pistorius: pensavo e penso che se lui ha l’ambizione di correre le olimpiadi insieme ai normodotati, io ho il dovere di fare il massimo con le gambe che la natura mi ha donato. Se poi non si tratta di Pistorius, che comunque ha trovato la sua strada e ha avuto successo, ma di bambini a cui la possibilità di camminare è stata tolta dalle mine antiuomo, il senso del dovere raddoppia.

Il progetto è appunto ambizioso, le risorse sono poche, ma la forza è tanta e il progetto è in buone mani, anzi in buoni piedi, quelli dei maratoneti, gente che sa cosa vuol dire perseguire obiettivi ambiziosi con risorse limitate.

Cliccate qui per visitare il sito di RunForLife e per scoprire come come potete dare il vostro contributo al progetto.
Ah, dimenticavo, se volete diventare miei sostenitori su RunForLife il mio nickname è OrsoLento. Grazie Max e grazie anche a Oscar per l’esempio che continua  a darci.

Progetti e orario di lavoro

Qualche tempo fa mi ha fatto riflettere una frase di una intervista a Manuele Bonaccorsi, autore di “Potere Assoluto”:

“Le eccezioni dovrebbero essere tali, invece in Italia il governo ne dichiara una ogni quattro giorni”

Non solo il governo, ho pensato io. Alla faccia del management by exception. E’ un nostro vizio tutto italico quello di considerare impossibile la programmazione e ineluttabile il passare da un’urgenza alla successiva. Uno scoglio culturale in cui mi imbatto tutti i giorni quando tento di far passare nelle aziende i principi del project management.

3211750_mLa memoria è andata allora a quel momento della mia vita in cui mi sono chiesto se fosse giusto lavorare fino a tardi alla sera, come allora facevo sistematicamente. Me lo sono chiesto sia perché il fare tardi al lavoro aveva ripercussioni sulla mia vita personale, sia perché mi chiedevo da un punto di vista metodologico se fosse corretto fare sistematicamente affidamento sull’orario extra per risolvere le situazioni di lavoro.

Viviamo in un ambiente lavorativo che ci mette sempre sotto pressione, nel corso della giornata siamo talmente inseguiti da mille cose urgenti da fare che spesso alla sera, riguardando alla nostra giornata, ci chiediamo cosa abbiamo fatto e rimaniamo con la sensazione di avere fatto nulla – a chi non è mai capitato?

Questa stessa sensazione è spesso la molla che ci spinge a prolungare l’orario di lavoro e fare tardi in ufficio, almeno per me era così. Poi un giorno qualcosa è cambiato. Con un collega ci siamo detti che dovevamo e potevamo programmarci tutto il calendario della settimana, anche il quarto d’ora che dedicavamo al “question time” per confrontarci e consigliarci reciprocamente sui numerosi progetti che entrambi seguivamo. Ci abbiamo provato e la vita di entrambi, per magia, è improvvisamente cambiata.

In realtà non ‘per magia’ ma perché avevamo scoperto, sarà banale ma per noi allora non lo era, che un minimo di disciplina migliora considerevolmente la qualità dalla vita e le modalità di lavoro, in una parola genera benessere. Da lì in poi è stato un susseguirsi di scoperte e ricadute positive: non si ‘perdevano più i pezzi’ dei progetti; riuscivamo finalmente a gestire le priorità, quelle vere, e non le urgenze; si riusciva a capire l’impegno effettivo da dedicare a ciascuna attività; si riusciva a trovare e misurare l’efficienza; e così via.

Dal quel momento ho cominciato a capire che se facevo tardi sistematicamente la sera era perché sbagliavo i miei piani.

Nel tempo ho poi messo progressivamente a fuoco anche quali sono gli antidoti per non ricadere nella spirale delle urgenze: non crearsi degli alibi per non fare quanto programmato qui e adesso, difendere la programmazione della propria agenda assegnando tutte le ‘urgenze’ che subentrano a slot di tempo definiti vicini o lontani nel tempo in funzione della …. vera urgenza (!) e delle priorità, agire in modo proattivo su tutti i fattori esterni che generano disturbo all’agenda, a partire dalla pianificazione iniziale e passando per una migliore gestione degli strumenti di comunicazione – telefono, mail, riunioni, ecc.

Più tardi, mettendomi a correre la maratona, ho anche trovato conferme nella programmazione sportiva. Confrontandosi con gli elementi fisiologici che determinano l’efficacia della corsa, se non si impara a gestire in modo rigoroso e disciplinato la propria ‘agenda cronometrica’, non si riuscirà mai a correre per intero una maratona. La natura non perdona, non rispettare l’ ‘agenda fisiologica’ anche di pochi secondi al chilometro può determinare il fallimento e non c’è ‘lavoro serale’ che permetta di recuperare.

Ora vivo e lavoro meglio, ho raggiunto un maggiore benessere tanto che riesco a dedicare le mie serate, oltre che alla famiglia, anche a …. scrivere gli articoli per il mio blog!

I nostri progetti e il futuro

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In genere non amo i graffiti. Non mi piace che i writer scrivano sui muri della città dove vivo causando fastidio e indebiti costi di pulizia a chi non necessariamente apprezza la loro arte.
Però devo ammettere che sabato mattina, mentre correvo su un cavalcavia e questa scritta mi è sbucata quasi all’improvviso nella nebbia, è stata un’illuminazione e mi sono fermato a fotografarla. In realtà, ho scoperto poi, la frase non è di un writer qualsiasi ma di ivan, ‘avanguardia di poesia di strada e assalto poetico’, come si definisce sul suo sito, personaggio piuttosto noto. E come si vede la scritta è stata a sua volta imbrattata da altri writer meno poetici.

Avendo dovuto vincere quella mattina la mancanza totale di voglia di abbandonare il lettuccio caldo per percorrere parecchi chilometri nella nebbia, mi ero immerso in riflessioni sugli alibi che noi tutti ci creiamo quando non vogliamo cambiare e facciamo resistenza. Se si va alla radice, questo è anche il problema principale da affrontare quando si introducono cambiamenti in azienda.  C’è sempre un buon alibi a disposizione, basta argomentarlo bene.

Questa frase, nel suo essere paradossale, può essere l’ennesimo alibi oppure spazzarli via tutti. Perché se mai il futuro è stato ‘quello di una volta’ oggi il mondo è cambiato, è diventato meno prevedibile e il futuro dobbiamo imparare a costruircelo. E questo ci costringe a pensare di più al nostro progetto e a darci un metodo di project management, quale che sia.

Siamo noi i padroni del nostro destino, dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare sodo per cercare di gestire al meglio e ridurre l’imprevedibilità dei nostri progetti e del nostro futuro.

Facilitare l’adozione del project management

Ho già parlato in un precedente post della proposta di una metodologia semplice ed efficace per il cambiamento in azienda, in questo mi soffermerò in particolare sulla fase di messa in atto della nuova organizzazione e dell’introduzione nella pratica di lavoro delle metodiche di project management una volta che queste sono state elaborate e definite.
Il sistema classico è quello di svolgere delle sessioni formative, anche se tale sistema ha il difetto di interrompere il lavoro delle figure aziendali che devono essere formate. Inoltre le sessioni formative hanno il grosso limite di essere avulse dal contesto lavorativo, per cui il rischio è che i concetti spiegati nelle sessioni formative stesse non vengano interiorizzati e che restino quindi inapplicati una volta che si è tornati al lavoro.

Come quindi introdurre efficacemente le metodiche in azienda nel minor tempo possibilesenza che le figure aziendali coinvolte debbano interrompere le proprie attività quotidiane?

Essendomi trovato recentemente a dover gestire alcune situazioni abbastanza complesse di introduzione di metodologie di project management, ho elaborato un modello basato sul mix di due elementi metodologici di provenienza diversa: il primo elemento stimola la creatività e la ricerca di soluzioni innovative e personalizzate, il secondo (di origine sportiva) consente di mantenere il processo di adozione rigorosamente indirizzato verso gli obiettivi che si vogliono raggiungere.

Il primo elemento si rifà alle tre fasi della Teoria U di Otto Scharmer: osservare a fondo, ritirarsi per riflettere e, una volta che un’idea ‘emerge’, applicarla immediatamente per avere un primo riscontro sul campo e poi migliorare il modello per approssimazioni successive (prototipazione ciclica).

La conseguenza è quella di fare training on the  job orientato alla continua ricerca di soluzioni pratiche innovative, all’incirca quello che fa in partita un bravo allenatore di sport di squadra: osservare, prendere appunti, interpretare la situazione di gioco, inventare correttivi operativi immediati, provarli, correggerli e così via.

Per legare l’approccio descritto qui sopra, più creativo, alla metodologia di project management adottata, che creativa non è, utilizzo il secondo elemento, un metodo che ho mutuato dal più famoso e controverso allenatore di calcioanalizzo e ‘distillo’ abbastanza in dettaglio quali sono i principi di lavoro che favoriscono l’adozione in azienda della metodologia di project management che si vuole introdurre, poi verifico che le azioni identificate secondo il processo creativo siano coerenti con i principi di lavoro definiti e portino quindi all’effettivo raggiungimento degli obiettivi metodologici di project management.

Facendo questo, sviluppo un ambiente creativo, in cui le persone sono stimolate a ricercare e ‘scoprire’ all’interno di quello che già fanno le modalità per la migliore adozione del metodo di project management, non distolgo le persone dal lavoro e allo stesso tempo tengo incanalato il processo di adozione della metodologia verso il raggiungimento degli obiettivi metodologici prefissati.

Chiaramente questo approccio richiede molto lavoro preparatorio per sviluppare una certa ‘arte’ nel gestire il processo e nel definire correttamente i principi di lavoro: i rischi sono di definire i principi stessi in termini troppo teorici e vaghi, minando il conseguimento degli obiettivi metodologici, o al contrario in termini troppo operativi e dispositivi, ancorando il processo a idee preconcette, con ogni probabilità poco adatte al contesto aziendale in cui si va ad operare.

Ho verificato sul campo che l’approccio sopra descritto permette di raggiungere risultati insperati in tempi relativamente brevi. Riprenderò e approfondirò il tema in qualche prossimo post o laboratorio dal vivo.

La maratona e la messa in esercizio dei progetti

nyDomenica 7 è stato il grande giorno e ho finalmente corso la maratona di New York. Parlandone con amici e colleghi tutti rimangono maggiormente colpiti dalla corsa in sé, da come si svolge e dalle sue dinamiche, ma la corsa è solo la messa in esercizio di un progetto che nel migliore dei casi comporta sei-dieci mesi di lavoro. Nel mio caso ho fatto il conto che in termini gestionali il progetto “Maratona di New York” ha comportato all’incirca un impegno di 500 ore/uomo distribuite su un tempo di calendario di 18 mesi. Un progetto quindi che ha richiesto una lunga preparazione e un lavoro considerevole, per poi essere messo in esercizio in poche ore in cui ci si gioca tutta la qualità dell’output erogato.

Ci pensavo durante i primi chilometri mentre attraversavo il quartiere di Brooklyn e avvertivo il disagio delle prime folate di aria fredda: cercavo di capire quanto l’attenta preparazione svolta mi mettesse al riparo dai rischi che sono sempre dietro l’angolo. L’analogia con i progetti che mi trovo normalmente a gestire era lampante, si lavora ad esempio per mesi per preparare una soluzione informatica e negli ultimi giorni si va  in esercizio, la si rilascia in un ambiente di esercizio (normalmente diverso e più ostico di quello di collaudo) e i margini di recupero sugli eventuali inconvenienti sono risicatissimi, si rischia il fallimento del progetto per un nonnulla.

A quel punto mi sono venuti in aiuto due aspetti comuni con il project management: la strategia di rilascio del progetto con una particolare focalizzazione sulla gestione delle variabili: costo (lo sforzo fisico impegnato), tempo, qualità e ambito (azione di corsa e ritmo), rischi e benefici (arrivare, in buone condizioni e in un tempo ragionevole). Potrà sembrare strano ma nel complesso si può dire che ho applicato dei principi simili a quelli codificati nella metodologia PRINCE2: ho suddiviso la prova in fasi (nel mio caso rispettivamente due fasi iniziali di 10 km ciascuna, seguite da 4 fasi di 5 km ciascuna e un ultima fase di 2.195 km) e le ho gestite  come fossero delle corse a sé stanti.  Questo mi ha permesso di controllare molto meglio il mio stato fisico, la mia azione di corsa, di gestire molto meglio la disponibilità di risorse e i margini relativi e quindi di avere un miglior controllo sui rischi eventuali. Al termine di ciascuna fase ‘resettavo’ il progetto, valutavo i margini di tolleranza sul ritmo tenuto e il ‘budget di rischio’ ancora a disposizione. Con questo sono riuscito a gestire e risolvere al meglio tutti gli inconvenienti che si sono presentati (aria fredda a tratti e in due momenti un paio di problemi articolari) e ad arrivare al traguardo che avevo ancora un leggero margine da spendere.

Il tutto però a funzionato perché era stato debitamente provato e riprovato in allenamento, sotto la guida di un allenatore esperto!